Aquilus – “Griseus” (2011)

Artist: Aquilus
Title: Griseus
Label: A Sad Sadness Song
Year: 2011
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: Australia

Tracklist:
1. “Nihil”
2. “Loss”
3. “Smokefall”
4. “In Lands Of Ashes”
5. “Latent Thistle”
6. “Arboreal Sleep”
7. “The Fawn”
8. “Night Bell”

Per quanto la sensibilità dell’individuo, inteso come unica mente pensante, possa ritenersi il privilegiato motore primo di qualsiasi forma d’arte, in musica, per i caratteri di coralità e aggregazione che spesso questa assume fin dalla genesi, lo stupore che a volte si prova nel realizzare quanto possa essere un’opera monumentale, complessa e densa il frutto di una singola persona tende a sopraffare e ad allontanare una domanda forse tanto più ovvia: potrebbe un gruppo di uomini insieme rappresentare immagini tanto vivide e delicate, dalle sfumature intime e dolorose che sono proprie dei processi percettivi e mentali intrinseci dell’individuo, senza andare a corrompere in modo definitivo una visione la cui essenza segreta viene custodita nel profondo dell’animo con umano pudore?
Certo, le singolarità di membri tanto coesi da muoversi come un solido blocco di materia brulicante ispirazione non mancano in un genere tanto eclettico e adattabile come il Black Metal. Ma in taluni casi, anche particolarmente intricati nonché risultato di lento sudore e cesello come “Griseus”, la risposta che sovviene spontanea è che non potesse esserci alternativa di sorta; sia per un linguaggio dal sentito taglio romantico che per una connaturata trasmissione dai tratti liminali del proprio messaggio, il primo reale parto degli Aquilus è uno di quegli esempi lampanti in cui l’emotività profonda e una visione d’insieme perfettamente compresa non possono infatti che essere l’opera di un unico soggetto, incamminatosi nell’impervio percorso di plasmazione del proprio mondo delle emozioni, di delineazione di uno spazio personale dai più cautamente celato e vissuto tra vacui ricordi di infanzia, paesaggi e momenti apparentemente casuali talvolta incastonati indelebilmente nella corteccia cerebrale. Altre volte, persino sfumati dalle cascate indefesse del tempo e dal caliginoso vortice dei sogni.

Il logo della band

Il processo che porta la one-man band australiana al debutto su full-length è una progressiva crescita che passa dai primissimi demo successivi alla fondazione, avvenuta nel 2004, e dall’EP “Arbor” del 2007: già manifesto dal canto suo di un progetto dai caratteri delineati e chiari, potenzialmente pronta per il grande passo. Ma l’idea che Waldorf ha per quello che sarebbe stato “Griseus” va ben oltre le prove precedenti e necessita non solo di quello che banalmente è il tempo per elaborare la ingente quantità di orchestrazioni e movimenti messi su pentagramma, da discernere in otto brani di notevolissima complessità, ma anche delle abilità tecniche e di produzione che un’uscita tanto ambiziosa richiede; un lavoro di fine maestria che si completa quattro anni dopo e che porta alla chiusura definitiva del cerchio con un full-length completamente plasmato e gestito dal suo ideatore originario nonché con un’iniziale ed insospettabile release digitale e autoprodotta nel dicembre del 2011, alla quale seguirà la scoperta e il dovuto intervento della nostrana Aeternitas Tenebrarum Musicae Fundamentum che ne curerà la versione fisica nel maggio dell’anno successivo affiggendole il marchio della sub-label A Sad Sadness Song.
Così dunque prende forma la prima opera di Horace Rosenqvist, il cui sguardo si posa sui paesaggi ampi e bucolici del Victoria non per narrarne gli umori, le sensazioni e le vicende, bensì per trarne angoscioso spunto, per tradurre in trame ramificate, grigie e crepuscolari le tribolazioni di un’anima dilaniata che nella natura si rispecchia per vederci il riflesso dei propri tormenti. Si dipana una narrazione stesa con lente e circolari pennellate tracciate fino all’esaurimento di quei colori tenui e desaturati con cui viene adombrata la ruvida tela vergine, andanti ad esprimersi con coinvolgenti, appassionati e al contempo delicati tocchi che abbozzano i profili di un full-length, il quale fin dal primo ascolto non può lasciare indifferenti, declinando con estrema naturalezza in fogge dalla piega tanto personale e particolare. E questo non per una totale assenza di coordinate o fonti di ispirazione, che ci sono e non sono nemmeno nascoste sotto la menzogna spesso fragile dell’avanguardia o di un vagheggiato sperimentalismo; ma più semplicemente perché mondi tanto distanti spazialmente convergono trovando terreno fertile in uno spettro di sensazioni che li accomuna indissolubilmente: strutture ariose e classiche dal forte carattere climatico incontrano i toni di un Metal singolare che vaga liberamente fra le diramazioni del genere, in una composizione raffinata e atmosferica il cui approccio strutturale alle parti estreme -ma non solo- si rifà tra gli altri ai versanti più poetici e stratificati dei Moonsorrow e dei primi Drudkh, alle più autunnali e acustiche movenze Agalloch su tutte e agli avvolgenti incastri progressivi degli Opeth di “Morningrise”.

Waldorf

Ma le premesse di un’uscita dai toni così melanconici vengono scosse dal cupo timore del crepuscolo, che spalanca le sue misteriose arcate su una “Nihil” che urla al cielo un rancore antico per poi accasciarsi affranta e svuotata di ogni vigore: rabbia liberatoria che si sgonfia in un istante verso la lenta gestazione che conduce dall’indicibile e insopportabile dolore ad un’insperata e vagheggiata accettazione. Sinfonie che si susseguono troppo intense per essere contenute nella fragile gabbia delle membra umane si stagliano sui profili argentei dei sintetizzatori, con virate che dal carezzevole e timido tocco del pianoforte di “Loss” evolvono gradualmente in movimenti melodici sporcati di grigia malinconia Doom non troppo distante da lidi Katatonia e Swallow The Sun, e le chitarre dalle geometrie corpose di “Smokefall” si disciolgono nel fluire perpetuo di un fiume torbido adombrato dalle sagome di ponti in rovina e di fronde protese e instabili, gravate dal peso di un’immota e solitaria eternità.
Il sound degli Aquilus rimane sospeso, aleggiante fra le tendenze teatrali ed orchestrali, da camera in questo caso, di un Symphonic Black Metal più semanticamente che non storicamente a lui prossimo, di cui rifugge le parentele più grandiose e barocche preferendo un impianto più propriamente classicista giustapposto al taglio sanguigno degli Emperor, e un approccio atmosferico radicalmente antitetico a quello che si sviluppa in quegli anni nello stesso territorio australiano: all’horror vacui proprio di Austere e Woods Of Desolation, in cui l’ambiente riverbera e risuona fra delay nostalgici e fischi sognanti, vi si contrappone un fascino morboso e misterioso nei confronti del potere del silenzio, reale protagonista di un brano tanto ricercato come “In Land Of Ashes”, che oscilla fra l’annullamento totale del suono e quelle note crepuscolari e auree figlie degli arpeggi degli Empyrium, che ondeggianti echeggiano nella nostra testa rendendolo un rifugio di intimo raccoglimento e momentanea distensione.
Dalla breve ma variopinta “Latent Thistle”, uno dei brani più violenti del platter che si riserva una coda graziata dal calore del sole, si dipana poi un nuovo volto dell’uscita: l’agognata accettazione di una tragica perdita sembra profilarsi via via con la comprensione di una morte che assume il carattere della gentile concessione e il sentore di una ritrovata libertà interiore in nostalgica comunione con gli spiriti del passato trova spazio nelle magnifiche “Arboreal Sleep” e “The Fawn”. A questo punto di “Griseus” ci si rende conto della grandiosa varietà di umori di cui si è stati investiti in quella che è l’ora passata a seguire passo passo una narrazione musicale vibrante sensazioni, dalle caratteristiche e dal pathos suadente e onirico in rapporto dialogico tanto con le colonne sonore di Bernard Herrmann quanto con le misteriose e chiaroscurali vicende di lungometraggi da lui orchestrati come “Vertigo” e “The Ghost And Mrs. Muir”. Tutto ciò che resta da fare è lasciare che il freddo abbraccio notturno di “Night Bell” ci permetta di ripercorrere le travagliate vicissitudini vissute con il magico tocco che solo le ore più cupe del giorno sanno apporre, amplificando a dismisura le emozioni, ridestando in un tremito le irrazionali paure che si pensava aver sopito per sempre, abbandonando i pensieri a quella tempesta interiore e nella speranza di ridestarsi presto dal torpore, rinascendo in un’altra giornata.

“Griseus” è un disco, alla prima uscita nel finire del 2011, passato per larga parte in sordina e rivelatosi al grande pubblico solo grazie alla sua definitiva stampa fisica avvenuta nella primavera seguente (e ancor di più, poi, al successivo annuncio della firma di un contratto con l’ascendente Blood Music che tanto ha fatto parlare di sé tra il 2013 ed il 2017); da quel momento in poi il suo cinereo splendore è stato più volte riscoperto, facendo breccia in una pletora di ascoltatori adoranti e spersi nelle voluminose arie di Waldorf, tanto ricche di drammaticità e riferimenti, sulle prime così faticoso da assimilare nel suo straziante dolore che si protrae per quasi ottanta minuti e tuttavia così spontaneamente penetrabile nella mente di pressoché chiunque possa essere avvezzo alle declinazioni che il Black Metal -e più in generale il panorama estremo ad ampio spettro- imbocca dalla fine degli anni ‘90 e in tutta la decade successiva, inabissandosi e allargando le sue spire con la facilità di una goccia di inchiostro nero su ruvida carta porosa.
Il debutto degli Aquilus è infatti prima di ogni cosa il magistrale pegno d’amore di uno straordinario musicista nei confronti di tutte quelle note passate che hanno saggiato e filtrato la visione del mondo a lui circostante, disciolte nell’esperienza personale, riforgiate nel vissuto e nel fantasticato, in favore di un’unicità soggettiva ricercata con la pazienza di chi non vuole rovinare un tesoro a lui caro e infine ritrovata in un’espressività che arde di un titanismo tratteggiato da infiniti contrasti e che freme del più cristallino stupore infantile.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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